25/11/25

Proprio oggi

Io ho subito violenza. Sono una di quel terzo di donne che in Italia ha subito almeno un tipo di violenza. Ovviamente l'ho capito solo molto dopo, perché nessuna delle violenze che ho subito era di tipo eclatante.

Stamattina ascoltavo una riflessione a tal proposito e mi sono fermata a riflettere su quanto sia storto il modo con cui cresciamo e alleviamo le bambine, educandole fin da subito a stare attente, a non mettersi nei guai, ad essere remissive e rispettose, sempre carine e coccolose. Iniziamo fin da subito a ingabbiarle nello status delle vittime, ché se ti succede qualcosa la colpa è tua perché hai avuto l'ardire di vestirti in un certo modo, o di replicare in un certo modo, o ti sei sfacciatamente sentita libera di andare in un certo posto o di fare una certa cosa.
Ammetto che - una volta presa consapevolezza di questo - faccio grande fatica a non commentare gli outfit delle mie figlie, mai indecenti in termini assoluti, ma che visti con occhi malati potrebbero sembrare provocanti.

Provocanti. Che parola orribile. E' quella che trasforma la vittima in carnefice di se stessa e la rende responsabile del comportamento di chi la violenza la agisce. Assurda parola.

Nessuno mi ha mai fatto fisicamente del male - ci tengo a precisarlo - ma di ricatti morali in tal senso ne ho ricevuti molti. E due miei uomini del passato, pur non colpendomi mai con forza, qualche volta lo hanno fatto. A volte camuffandolo da gesto di cameratismo, anche se eravamo fidanzati e non commilitoni, per una mia battuta pungente, o semplicemente come gesto di sfogo di una frustrazione costante e soffocata che provavano nei miei riguardi. Una volta uno di loro lo fece persino davanti a suo padre, e lui lo rimproverò duramente, ma non disse niente a me, né prese mai più l'argomento.

Quando ero ragazzina, invece, mi sentivo in colpa per il mio corpo giovane e allettante che attirava gli sguardi indiscreti di un uomo che mi veniva più o meno parente e che in quegli anni frequentavamo spesso in famiglia.
Mi spiava da sotto il tavolo ed io ho smesso di indossare gonne. Ma gli aspetti più orribili sono due: il primo è che mi sentivo io responsabile; cioè lui era un vecchio porco che guardava sotto la gonna di una ragazzina di 15-16 anni ed ero io che me ne sentivo colpevole e quindi ho smesso di indossare le gonne che tanto mi piacevano; il secondo aspetto è che i miei genitori lo sapevano e non facevano assolutamente niente. 
Ecco perché non dico mai alle mie figlie che hanno indossato una gonna molto corta, oppure che non devono indossare il top che lascia la pancia parzialmente scoperta. Perché non voglio che si sentano come mi sentivo io, costretta a rinunciare al mio piacere nel vestirmi come volevo, per non essere provocante. 
L'ho già detto che trovo la parola "provocante" la più terribile fra le parole?
Siccome vivo nel mondo di oggi, so che è un rischio andare in giro con le gambe scoperte o con l'ombelico di fuori, ma credo fermamente nel cambiamento culturale "dal basso". Mai e poi mai permetterei a nessuno di dare la colpa al loro modo di vestire se dovesse succedere loro qualcosa.
Probabilmente io perderei il lume della ragione e mi trasformerei in creatura feroce nei confronti di chi fa loro del male, ma mai e poi mai darei loro la responsabilità, seppure minima, di ciò che potrebbe accadere. Voglio che si sentano libere di piacersi, perché anche gli altri sono esseri senzienti e dotati di intelletto, e usare violenza su una donna solo perché indossa una minigonna non è comportamento da essere senziente dotato di intelletto. La colpa non è della minigonna.
Incrocio le dita e spero in bene. Incrocio anche quelle dell'altra mano e spero che le loro figlie o le loro nipoti possano guardare a me, che ho smesso di indossare gonne, come io guardo a mia nonna, costretta a sposarsi per rimediare alla colpa di aver attirato le attenzioni di un uomo che l'ha rapita, violentata e compromessa quando aveva 14 anni. 
Come oggi non ammettiamo più l'idea di "matrimonio riparatore", sogno un futuro dove nessuno ammetterebbe più la domanda "Com'eri vestita?".

E in tutto questo, proprio oggi l'altro mio nonno avrebbe compiuto 100 anni. Anche loro si sposarono riparando alla fuitina, ma quanto meno quell'altra mia nonna, pur essendo giovanissima, era complice e consenziente.

23/11/25

Domenica

Decidere su due piedi di fare una torta per le mie figlie, arrangiandomi solo con il poco che c'è in casa.
Notare lo sguardo sorpreso di entrambe, mentre annusano l'aria che "profuma di torta".
Sentirmi la peggiore delle madri dell'universo.
Ricevere i loro apprezzamenti dopo averla mangiata.
Riconoscere di essere ancora, forse, una madre appena appena accettabile, ma sentirmi comunque come un'ingannatrice impunita.

Le domeniche in casa Van Pelt

21/11/25

L'affare Makropulos

La settimana scorsa il professore di teatro ci aveva lasciato da leggere e interpretare il monologo più famoso dell'opera teatrale "L'affare Makropulos" di Karel Capek.

Una pagina intera che non andava - obbligatoriamente - imparata a memoria, piena di riflessioni sul senso "finito" della vita umana, di come l'esagerazione svuota di significato ogni cosa, anche la più bella e auspicabile. Nel caso della protagonista: la vita.

Emilia ha 342 anni perché ha avuto accesso ad una formula magica che le ha permesso di cristallizzare il suo corpo e vivere per altri 300 anni. Allo scadere del tempo, pur essendo ormai annoiata di tutto, del bene e del male, cerca di rinnovare l'incantesimo perché ammette di avere comunque paura di morire.

Io l'ho letto e riletto centinaia di volte fino a impararlo (quasi bene) a memoria. Poi il professori si è assentato ed ha mandato a sostituirlo la sua collega che si occupa del corso avanzato.
Non volevo mettermi in mostra, ma il mio ego è stato più forse del mio senso etico nei confronti degli altri compagni. L'ho detto.
Alla domanda "Ma quindi nessuno di voi è riuscito a prepararne un'interpretazione anche solo leggendolo dal copione?" ho risposto che in effetti io lo avevo fatto. Anche sforzandomi di mandarlo a memoria.

Ho sudato e tremavo, ma l'ho recitato sbirciando solo occasionalmente dal foglio.
Per me è stato un trionfo.

Come in ogni aspetto della mia esistenza, io vivo spaccata a metà.
Una delle grandi dicotomie della mia personalità è proprio la convivenza tra la mia essenza yogica, spirituale, fatta di ascolto e rispetto del Sé, senza fronzoli, senza attaccamento alle cose materiali, praticando la contentezza, l'amore per l'essenziale, il servizio verso gli altri, vivendo il silenzio come un dono prezioso; dall'altro lato c'è il mio spirito istrionico e teatrale, la passione per lo spettacolo, per la musica, l'esibizione, il desiderio di mostrare agli altri quanto sono brava e capace.

Esattamente come Emilia, che dice di non sentire più nessuna emozione che possa farle amare la vita, eppure ammette di avere una terribile paura di morire.

20/11/25

La vita è ingiusta

Sono pronta per la terza e ultima lezione della mattinata alla scuola dell'infanzia. Sento le voci dei bambini in corridoio, mentre si avvicinano alla sala che utilizziamo. 

Entrano, li saluto, li invito a sedersi sui tappetini, e la maestra mi chiede se può parlarmi in disparte un secondo.

Non è una cosa che succede spesso, solo in casi gravi.
Mi dice che pochi giorni prima è morta la mamma di una dei bambini. Un tumore fulminante, diagnosticato appena un mese prima. La bambina lo sa, ma ha solo 3 anni, e la morte è un concetto troppo astratto. Nei prossimi mesi diventerà maledettamente concreto.

Come io abbia fatto a portare avanti la lezione, con il solito tono, la solita leggerezza, la solita gioia io ancora me lo chiedo.
Avevo la bambina davanti, una bambina di 3 anni appena, con gli occhioni sereni e allegri, che ha seguito tutta la lezione contenta e sorridente, incapace di capire la reale entità di quello che le è successo. Io avevo un macigno sul cuore.

A pranzo mi sono vista con il Capitano ed ho sfogato con lui tutte le lacrime che avevo trattenuto per un paio d'ore.
La vita a volte è davvero ingiusta.

19/11/25

Lo stetoscopio della zia Nina

Confidavo nell'effetto sorpresa e invece la sorpresa l'hanno fatta loro a me.
I bambini di oggi conoscono lo stetoscopio, sanno a cosa serve e come si chiama. Non avevo mai sentito un bambino di 4 anni pronunciare la parola "stetoscopio".

Lo conoscono perché lo hanno visto usare dai loro pediatri oppure perché ce l'hanno giocattolo.
Io gliel'ho portato vero però, e una bambina mi ha chiesto se allora io sono una dottoressa (in incognito! sotto le mentite spoglie di una maestra di yoga).
No, non sono una dottoressa e quello che ho portato era uno stetoscopio di mia zia Nina. Lei sì che faceva la dottoressa.

Uso lo stetoscopio della zia Nina esattamente da quando è morta, da quando abbiamo sgomberato la sua casa e l'ho trovato. 
Ho raccontato ai bambini che in questo modo mi sembra che anche la zia Nina sia con me, quando faccio yoga con loro. Uno mi ha chiesto se anche la zia Nina fa yoga. Boh? Magari dove si trova adesso sì.

18/11/25

La direttrice

A giugno sono stata invitata da un'azienda a fare un corso di yoga in pausa pranzo per il personale.
In quell'occasione ho visitato la struttura individuando la sala più adatta, ma mi sono relazionata solo con la ragazza promotrice dell'accordo. Solo poco prima di andarmene mi ha invitato a conoscere la direttrice.
Sono entrata, dunque, in un lussuosissimo ufficio, con lampadari, quadri alle pareti, scrivania e poltrona presidenziale.
La direttrice era una donna probabilmente mia coetanea, molto simpatica e accogliente, ben curata ma non appariscente.

A inizio ottobre, dunque, comincio il corso con 4 allieve mai viste prima. 
Mi mantengo sul soft generico, perché sono 4 corpi, 4 età e soprattutto 4 modi diversi di vivere il movimento, l'alimentazione e la cura del proprio benessere, ma conduco comunque le lezioni a modo mio: col sorriso, sdrammatizzando le difficoltà e la fatica, guidandole in un viaggio all'interno del proprio essere, incoraggiandole e supportandole nelle fasi critiche e buttando lì qualche battuta ogni tanto.

Solo dopo più di un mese, incrociandola all'uscita dal bagno dove era andata a cambiarsi e vedendola in abiti "ufficiali", ho finalmente riconosciuto la direttrice nell'allieva alla quale 10 minuti prima avevo detto che doveva (sic) "stringere le chiappette così tonifichiamo per bene il lato B e cominciamo da novembre a lavorare per la prova costume di luglio".

Per fortuna non mi ha licenziata.
Ancora.

17/11/25

Un anno

Un anno fa il mio cuore ha ripreso a battere ed io ho scoperto che posso ancora amare, emozionarmi, vivere.




15/11/25

L'imbucato molesto

Ho 16 famiglie con bambini dai 2 ai 4 anni davanti a me; ho appena finito la parte più attiva della lezione: abbiamo cantato, ci siamo riscaldati, abbiamo fatto gli asana, abbiamo fatto il giochino di contatto. E' il momento della lettura, l'ultimo sforzo per la mia voce, ma il mio momento preferito, perché sancisce l'inizio della fine della lezione.
Ho scelto un albo illustrato simpatico, uno dei miei cavalli di battaglia perché mi permette di drammatizzarlo ottenendo un grande effetto sorpresa sul finale, che fa ridere sia i bambini che i loro genitori.
Come sempre, quando prendo il libro in mano, mostro loro la copertina e chiedo se lo conoscono già.
Inforco gli occhiali, bevo un sorso d'acqua, l'ennesimo, faccio un bel respiro e mi accingo a iniziare quando nell'aria esplode una musica elettronica non ben indentificata.
Guardo Matilde, mia figlia, che ormai mi fa da assistente a certe lezioni quando sono affollate, e domando: "Ma che è sta cosa?"
Lei mi guarda, imbarazzata, di rimando e mi indica il fondo della sala.

Un nonno, imbucato perché doveva guardare il fratellino appena nato di una piccola yogina mentre lei e la mamma facevano lezione con me, si stava bellamente facendo i fatti suoi sul telefono e gli era partito un video con l'audio a palla.

Quando pensi di averle viste tutte...

14/11/25

Dalla bellezza all'angoscia

Ho finito la mia giornata lavorativa, ho cenato, ho ancora un'ora prima di iniziare (da allieva) il corso di teatro.
Decido di fare una lunga passeggiata per le vie del centro di Torino, in silenzio, immergendomi nell'atmosfera festosa che si respira in questi giorni. Cammino lungo via Po, sotto i portici. I negozi hanno già gli allestimenti natalizi, ed io li adoro. C'è una molesta sovrapresenza di palline gialle o di richiami più o meno opportuni al tennis, ma pazienza, il periodo è quello che è.
Arrivo in fondo a via Po, in piazza Vittorio, e decido di arrivare al fiume. 
E' mentre attraverso che le noto.
Tre ragazze accovacciate, poi una di loro si alza, mentre le altre due restano giù. Una di loro è seduta per terra, con le spalle poggiate al muretto, e l'altra - davanti a lei - le tiene le mani.
Passo loro accanto e vedo che quella seduta piange mentre l'altra le dice "Guardami. Respira e guardami. Guarda me".
Passo oltre, vado verso il ponte, ma mi rendo conto che tra i presenti non le nota nessuno. O meglio: una coppia di ragazzi è passata al loro fianco e lui si è girato. Si fermano un po' distanti e restano ad osservarle.
Allora mi avvicino a una quarta ragazza, leggermente in disparte, e le chiedo se secondo lei la ragazza ha bisogno di aiuto, se hanno chiamato un'ambulanza o non so.
La ragazzina avrà avuto 15 o 16 anni (questo dettaglio mi turba parecchio) e mi dice che no, non serve, non è grave.
Le chiedo se lei è con loro, se sa cosa è successo, e lei mi risponde che va tutto bene, che la ragazza a terra ha solo litigato col fidanzato.
Mi assicuro che non sia davvero necessario chiamare qualcuno, quindi me ne torno sui miei passi.
Le osservo ancora dall'altro lato dell'incrocio e mi sento salire un'angoscia soffocante che mi strozza il respiro e riempie gli occhi di lacrime.
Non so perché, ma ho pensato alla mamma di quella ragazza, che magari non ne sa niente di quanto dolore provi sua figlia.
Ho pensato alle mie figlie ed ho sperato che, se mai un giorno dovessero avere bisogno di aiuto mentre si trovano fuori casa, qualcuno possa offrirsi di aiutarle.

Volevo fare una passeggiata di decompressione, volevo riempirmi di bellezza, invece mi sono solo caricata di angoscia.

12/11/25

Cavalleria atletica

Il Capitano non è propriamente uno sportivo, ma si allena in palestra con impegno e costanza.
Io non sono propriamente una sportiva, ma da un paio di mesi ho iniziato a fare lezioni di yoga tutti i giorni, anche 2 o 3 al giorno, alcune delle quali consecutivamente.
Lui fa pesi, io lavoro a corpo libero. 
Lui conosce i nomi delle macchine da palestra e degli esercizi, io conosco il sanscrito.

Parlando di teoria, finiamo sulla pratica, e la pratica in questione è il cosiddetto "plank". Me la mostra, io la replico. 

Cerco di trovare un asana corrispettivo, ma in realtà non c'è perché non è né Chaturanga Dandasana, né Ardha Sirshasana, ma piuttosto una via di mezzo. Non è nemmeno Kumbhakasana, perché lui si appoggia sugli avambracci. Boh, magari sarà la variante di qualcosa, senz'altro.

Comunque bello. Un bel lavoro sugli addominali più che sulle braccia, forse meglio per certi muscoli della spalla.

E ce ne stiamo lì, sul tappeto della sala di casa sua, a fare plank e scoprire - con una sfida più o meno esplicita - chi resiste di più.

Io parlo e dico cose sceme, come sempre. Lui ride e crolla.
Vinco io, ma secondo me lo ha fatto per cavalleria :-D