19/12/25

L'influenza

Il primo giorno ho visto la morte sdraiata al mio fianco, nelle fattezze di un dolore fisico interminabile, intenso, inspiegabile. Il raffreddore a mille e non avere le forze per protendere la mano verso i fazzoletti, e una volta trovate le forze, vivere la sensazione di avere una forchetta conficcata nella testa con qualcuno che ne impugna e gira il manico come a voler arrotolare spaghetti di cervello ad ogni soffio del naso.
Avere parziale sollievo solo con l'antipiretico, e però pagarne lo scotto con un bagno di sudore, dunque sfruttare il temporaneo sollievo dal dolore e dalla spossatezza per cambiarmi completamente il pigiama. Ogni volta. Ogni otto ore.
E passare dal sonno alla veglia con un'alternanza da neonata di due giorni di vita. Vedere lampi di luce nella stanza buia, sentire campanelli inesistenti che suonano.
Lo sguardo preoccupato di Matilde ("Mamma, per favore, non morire perché ancora sei giovane") e la mano gelata di Angelica che mi prende la mia ("Mamma sei bollente").

Il secondo giorno ho avuto il coraggio di misurarla la febbre, perché mi sentivo già meglio. Avevo 38,8. Per fortuna che il giorno prima non l'avevo misurata, mi sarei solo spaventata. Magari ho toccato i 40, chissà.

Il terzo giorno la febbre passa quasi del tutto e arriva la tosse che squarcia il petto, che infiamma e brucia e arde e divampa e lascia un'impronta di carbone incandescente anche per diversi secondi dopo che è finita.

Il quarto giorno basta. Ho deciso che sono guarita.
Non ho più febbre, ho ancora tosse, ma cominciamo a fare amicizia e cantare insieme vecchie sigle dei cartoni animati.

Per stavolta l'ho sfangata.
Non stavo così male da anni. L'anno prossimo mi metto in fila coi vecchietti in farmacia e mi vaccino a ottobre pure io.

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